Le domande da porsi sulla tragedia di Vasto / di Stefano GUARNIERI / 03.02.2017
Su questa tragedia di Vasto a mio parere molti continuano a porsi la domanda sbagliata: “di chi è la colpa?”.
Gli operatori dello Stato, incluso quelli della giustizia, continuano ad avere atteggiamenti difensivi che non portano a niente: “abbiamo fatto quello che dovevamo fare, in linea con la legge”.
Tanti si sentono in dovere di giudicare il comportamento di una vittima indiretta come Fabio, marito di Roberta, dal divano di casa nel caldo di un accogliente focolare domestico.
Premesso che la vendetta è un comportamento da censurare perché genera tragedia su tragedia e non risolve niente, anzi peggiora sia l’utilità del singolo che quella della società, non ho sentito fino ad adesso una domanda giusta del tipo: “che cosa possiamo imparare da questo episodio e che cosa possiamo fare di diverso?”.
Per prima cosa, senza dubbio, dobbiamo lavorare sulla prevenzione cercando in ogni modo di evitare che la violenza stradale uccida. Non mi soffermo su questo, ma una domanda che gli investigatori dovrebbero sempre farsi è: “che cosa possiamo imparare da questo scontro?”.
Ma ancora prima di questo gli operatori dovrebbero chiedersi: “come stanno i familiari della vittima, a loro volta vittime” e “cosa possiamo fare per aiutarli”.
Invece purtroppo le vittime vengono spesso (non sempre – ci sono anche dei casi virtuosi) emarginate dalle amministrazioni dello stato e della giustizia e trovano conforto solo nella loro stessa comunità, che non sempre è in grado di aiutare correttamente. Fabio ha dovuto affrontare, come tanti, un percorso che non ha scelto, al quale non era preparato, pieno di ostacoli e di mancata trasparenza. Biologicamente le vittime durante il lutto diventano deboli nel momento in cui devono affrontare probabilmente i problemi più difficili di sempre. E allora il rischio che possano diventare a loro volta omicidi o suicidi c’è. In maniera maggiore interviene la quasi certezza di incorrere in malattie psichiatriche che condizioneranno poi tutta una vita. Aiutarli con un supporto psicologico mi sembrerebbe il minimo.
Sarebbe poi cruciale che tutti gli operatori fossero consapevoli di questo, facendo il massimo possibile per portare le “vittime al centro”. Incluso i giudici e il sistema giustizia.
La centralità della vittima nel processo è un concetto adesso entrato anche nel nostro codice di procedura penale, ma ancora distante nella pratica di tutti i giorni. E invece sarebbe importante, perché sapere quello che accade nelle stanze dei tribunali, quali sono i tempi delle indagini, quali saranno i prossimi passi, dovrebbe essere una cosa semplice da sapere e dovuta alla vittima.
In Inghilterra le vittime hanno diritto di scrivere un “victim personal statement” da leggere in tribunale, per esprimere il punto di vista della vittima e Il “crown prosecutor” (il nostro procuratore) ha il dovere di parlare con la vittima (o nel caso di morte con un delegato dai parenti) e non può rifiutare il colloquio (come spesso avviene in Italia), anzi deve facilitarlo.
La totale assenza poi di giustizia riparativa – chi ha procurato il danno deve porre rimedio alle conseguenze lesive della sua condotta – non aiuta.
Non so se è questo il caso, ma vedere di nuovo guidare chi ha ucciso un tuo caro violando il codice della strada, è una delle cose che fa più male a detta di tante vittime.
Rendersi conto che non sono disgrazie, ma omicidi con diversa gravità, fornire assistenza appropriata e riportare in tutti i luoghi, compresi i tribunali, le vittime al centro aiuterebbe a salvare vite e a rendere quelle rimaste meno miserabili.
Comunque per chiudere con una nota positiva, per una vittima come Fabio che ha sbagliato, provocando ancora dolore e danno e creando a sua insaputa tanto rumore mediatico, ci sono tante vittime come Erina, Elisabetta, Massimiliano, Valentina, Francesco, Franco, Giovanni, Andrea, Stefania, Maria Luisa, Croce, Luca, Mauro, Marco, Maurizio, Marina, Tiziana e chissà quante/i altre/altri di cui mi sono dimenticato che aprono pozzi in Africa per dare acqua ai bimbi, lavorano con i carcerati per il loro reinserimento, fanno educazione alla legalità nelle scuole e nello sport, aiutano paraplegici a fare sport, aprono palestre per i giovani nelle favelas e dedicano energie e tempo della loro vita ad aiutare gli altri.
Senza pensare alla vendetta, ma anche sempre attenti a chiedere giustizia per i loro cari, come è giusto che sia!
FONTE: https://goo.gl/czDvEY